RICORRENZE 2015

Nel corso del 2015 conosceremo:
IPAZIA - FRANK STEWART FARRAR
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 FRANK STEWART FARRAR
Londra 28 giugno 1916 – Irlanda 7 febbraio 2000.
Nel 2015 ricorrono i 15 anni dalla sua morte.

Fu romanziere, sceneggiatore, fu figura di spicco della religione neopagana della Wicca, cui dedicò gran parte della sua vita.


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IPAZIA
Alessandria d'Egitto 355/370 - Alessandra d'Egitto marzo 415.
Nel 2015 ricorrono i 1600 anni dalla sua morte.

Fu astronoma, filosofa e matematica.

Ipazia è stata una matematica, astronoma e filosofa del IV secolo d.C.
Rappresentante della filosofia neo-platonica pagana, la sua uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto, per alcuni autori composta di monaci detti parabolani, l’ha resa una martire del paganesimo e della libertà di pensiero.
Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto nella seconda metà del IV secolo, si crede che possa essere nata tra il 255 e il 370 d.C., anche se per mancanza di fonti non è possibile stabilire con precisione l’anno della sua nascita.
Si sa di un fratello di nome Epifanio, dedicatario sia del Piccolo commentario alle Tavole facili di Tolomeo, che del IV libro dei Commentaria a Tolomeo, del padre Teone.
Dubbia è la possibilità che avesse un altro fratello di nome Atanasio.
Nulla si sa della madre, è invece noto il padre, «Teone, il geometra, il filosofo d’Alessandria », che studiava e insegnava ad Alessandria, dedicandosi in particolare alla matematica e all’astronomia — osservò l’eclisse solare del 15 giugno 364 e quella lunare del 26 novembre — e che sarebbe vissuto almeno per tutto il regno di Teodosio I (378-395).
Le fonti antiche sono concordi nel rilevare come non solo Ipazia fosse stata istruita dal padre nella matematica ma, sostiene Filostorgio, anche che «ella divenne molto migliore del maestro, particolarmente nell’astronomia e che, infine, sia stata ella stessa maestra di molti nelle scienze matematiche».
Filostorgio non è soltanto uno storico della Chiesa, ma anche un appassionato, se non un esperto, di astronomia e di astrologia, e le sue affermazioni trovano conferma in Damascio il quale scrive che Ipazia «fu di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene dalle scienze matematiche alle quali lui l’aveva introdotta, ma non senza altezza d’animo si dedicò anche alle altre scienze filosofiche».
Ipazia aveva tutti i titoli per succedere al padre nell’insegnamento di queste discipline nella comunità alessandrina. Infatti Ipazia, già almeno dal 393 era a capo della scuola alessandrina, come ricorda Sinesio, giunto ad Alessandria da Cirene per seguirvi i suoi corsi.

La mancanza di ogni suo scritto rende però problematico stabilire il contributo effettivo da lei prodotto al progresso del sapere matematico e astronomico della scuola di Alessandria: a dire del Kline, quella scuola «possedeva l’insolita combinazione di interessi teorici e interessi pratici che doveva rivelarsi così feconda un migliaio di anni più tardi. Fino agli ultimi anni della sua esistenza, la Scuola alessandrina godette di piena libertà di pensiero, elemento essenziale per il fiorire di una cultura e fece compiere importanti passi avanti in numerosi campi che dovevano diventare fondamentali nel Rinascimento: la geometria quantitativa piana e solida, la trigonometria, l’algebra, il calcolo infinitesimale e l’astronomia».

Secondo alcune fonti, ad Ipazia si attribuiscono la perfezionamento dell’astrolabio (antico strumento astronomico usato per localizzare i corpi celesti) e l’invenzione dell’idroscopio (strumento per pesare i liquidi).
Sempre per la mancanza di suoi scritti la ricostruzione del pensiero filosofico di Ipazia si rivela alquanto difficoltosa. In assenza di opere autografe e di riferimenti espliciti occorre fare riferimento agli scritti del suo allievo Sinesio, che sono quelli ritenuti più attendibili.
Christian Lacombrade dopo aver analizzato le caratteristiche degli scritti del giovane Sinesio, fondatamente influenzati dal suo soggiorno alla scuola d’Alessandria, afferma che i maggiori maestri che influenzavano l’insegnamento di Ipazia era Porfirio (filosofo e teologo greco, seguace della filosofia neoplatonica), mentre minore rilievo vi avrebbe avuto Giamblico (filosofo greco), sottolineando che Ipazia avrebbe soltanto illustrato il pensiero neoplatonico, senza elevarsi «a una concezione generale del mondo, non ha creato, come qualsiasi autentico filosofo, nessun sistema originale».

Resta il fatto che Sinesio rimase devotissimo alla sua maestra per tutta la vita, un atteggiamento che sembra dimostrare che egli avrebbe ascoltato ad Alessandria molto più di una semplice esposizione del pensiero di alcuni filosofi. Sinesio, come dimostrano le sue lettere a Ipazia e ad altri, fece parte per tutta la vita di un circolo di iniziati alessandrini, con i quali condivise la filosofia allora insegnata.
Ipazia gli avrebbe insegnato a considerare la filosofia «uno stile di vita, una costante, religiosa e disciplinata ricerca della verità».
In tutte le opere filosofiche di Sinesio è individuabile costantemente l’insegnamento di Ipazia.
Sembra quasi che il rapporto tra Sinesio e Ipazia fosse uguale a quello che ebbero Socrate e Platone.
Ipazia «era giunta a tanta cultura da superare di molto tutti i filosofi del suo tempo, a succedere nella scuola platonica riportata in vita da Plotino e a spiegare a chi lo desiderava tutte le scienze filosofiche.
Per questo motivo accorrevano da lei da ogni parte tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico». In questo passo, Socrate Scolastico, scrivendo intorno al 440, indica che ad Alessandria l’unica erede del platonismo interpretato da Plotino (filosofo greco e padre del neoplatonismo) era stata Ipazia.
Se si ammette la correttezza della successione delineata da Socrate Scolastico, ne deriva che Ipazia escluse dal suo insegnamento della filosofia neoplatonica la corrente magico-teurgica, inaugurata da Giamblico e continuata nella scuola ateniese, per ricondurla alle fonti di Platone attraverso la mediazione di Plotino.
Resta da capire se Ipazia aderiva a un platonismo derivato da quello di Plotino, o se invece, rifacendosi a una tradizione più o meno consolidata, proponeva un pensiero adeguato al tempo in cui si trovava a vivere e pensare.
Nell’opinione di Socrate Scolastico, Ipazia è considerata filosofa nel senso alto del termine e degna erede di Plotino.

Un’altra testimonianza proviene da Damascio, che alla fine del V secolo si stabilì ad Alessandria.
Egli scrive che Ipazia «di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche a cui era stata introdotta da lui ma, non senza altezza d’animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche. La donna, gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo».
Risulterebbe dal passo che Ipazia, iniziato il suo percorso culturale dallo studio delle scienze matematiche fosse approdata alla «altre scienze filosofiche», ossia alla «vera filosofia», che raggiunge il suo culmine nella
dialettica. Un altro elemento che viene sottolineato dalle fonti antiche è il pubblico insegnamento esercitato
da Ipazia verso chiunque volesse ascoltarla: l’immagine data di una Ipazia che insegna nelle strade sembra sottolineare un comportamento la cui audacia sembra quasi voluta, come un gesto di sfida e, a questo pro posito, va rilevato che quando Ipazia comincia a insegnare, nell’ultimo decennio del IV secolo, ad Alessandria sono stati appena demoliti i templi dell’antica religione per ordine del vescovo Teofilo, una demolizione che simboleggia la volontà di distruzione di una cultura alla quale anche Ipazia appartiene e che ella è intenzionata a difendere e a diffondere.
I cosiddetti decreti teodosiani, emessi dall’imperatore Teodosio tra il 391 e il 392, avevano sancito la proibizione di ogni genere di culto pagano ed equiparato il sacrificare nei templi al delitto di lesa maestà punibile con la morte.
Socrate Scolastico sottolinea la particolare insistenza del vescovo Teofilo per ottenere dall’imperatore decreti che mettessero fine ad Alessandria ai culti dell’antica religione, e così avvenne. Fu risparmiato il tempio di Dioniso, che il vescovo ottenne in dono dall’imperatore, per essere trasformato in chiesa: già da anni un altro storico edificio, il Cesareo, il tempio di Augusto, era stato trasformato in cattedrale cristiana e costituiva il luogo di celebrazione più importante della comunità cristiana.
Una particolare resistenza opposero gli elleni alla distruzione del Serapeo, il tempio più antico e prestigioso della città. Oltre al culto di Giove Serapide, vi erano celebrati i culti di Iside e delle divinità egizie e vi erano custoditi i loro «misteri».
Teofilo fece tutto quello che era in suo potere per danneggiare e distruggere la religione ellenica, espose persino pubblicamente, per sacrilegio, gli oggetti di culto dei templi distrutti.
Il gesto provocò, nonostante il carattere “pacifico” dei pagani, l’ultima resistenza degli elleni. Sconvolti dal gesto sacrilego, tramarono tra loro una cospirazione ai danni dei cristiani, dopo aver ucciso e ferito molti di loro, occuparono il tempio di Serapide. L’imperatore stesso, da Costantinopoli, appoggiò la comunità cristiana, sollecitando gli elleni a convertirsi: questi abbandonarono il tempio, che fu occupato dai cristiani. Il giorno prima della sua distruzione Olimpio, l’ultimo sacerdote del Serapeo, fuggì in Italia.
Nessuna fonte attesta il comportamento tenuto da Ipazia durante queste drammatiche vicende, né gli eventuali rapporti intercorsi tra lei e il vescovo Teofilo. Sappiamo che il risalto ottenuto nella città di Alessandria dalla personalità di Ipazia è immediatamente successivo a quei fatti e coincide altresì con l’affermazione, prodottasi nell’Impero orientale, del movimento politico e culturale degli elleni, sostenitori tutti della tradizionale cultura greca indipendentemente dalle singole adesioni a una particolare religione.

Il prestigio conquistato da Ipazia ad Alessandria ha una natura eminentemente culturale, ma quella sua stessa eminente cultura è la condizione dell’acquisizione, da parte di Ipazia, di un potere che non è più soltanto culturale: è anche politico.
Scrive infatti lo storico crisiano ortodosso Socrate Scolastico: «Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale » (Socrate Scolastico, cit., VII, 15)
Quasi un secolo dopo, anche il filosofo Damascio riprende le sue considerazioni: Alla morte di Teofilo nel 412 salì sul trono episcopale di Alessandria Cirillo: questi «si accinse a rendere l’episcopato ancora più simile a un principato di quanto non fosse stato al tempo di Teofilo », nel senso che con Cirillo «la carica episcopale di Alessandria prese a dominare la cosa pubblica oltre il limite consentito all’ordine episcopale».
In tal modo, tra il prefetto di Alessandria Oreste, che difendeva le proprie prerogative, e il vescovo Cirillo, che intendeva assumersi poteri che non gli spettavano, nacque un conflitto politico, anche se Cirillo e i suoi sostenitori tentarono di occultare le vere ragioni e posero la questione nei termini di una lotta religiosa riproponendo lo spettro del conflitto tra paganesimo e cristianesimo.

Nel 414, durante un’assemblea popolare, alcuni ebrei denunciarono al prefetto Oreste quale seminatore di discordie il maestro Ierace, un sostenitore del vescovo Cirillo. Ierace fu arrestato e torturato, al che Cirillo reagì minacciando i capi della comunità ebraica, e gli ebrei reagirono a loro volta massacrando un certo numero di cristiani.
La reazione di Cirillo fu durissima: l’intera comunità ebraica fu cacciata dalla città, i loro averi furono confiscati e le sinagoghe distrutte. Ma il prefetto Oreste non poté prendere provvedimenti contro il vescovo Cirillo (oggi considerato santo dalla chiesa cristiana), poiché per la costituzione del 4 febbraio 384 il clero veniva a essere soggetto al solo foro ecclesiastico.
Nel pieno del conflitto giurisdizionale tra il prefetto e il vescovo, dai monti della Nitria intervennero a sostegno di Cirillo un gran numero di monaci, i cosiddetti parabolani. Formalmente degli infermieri, di fatto
costituivano un vero e propri corpo di polizia che i vescovi di Alessandria usavano per mantenere nelle città il loro ordine.
Costoro, usciti in numero di circa cinquecento dai monasteri e raggiunta la città, si appostarono per sorprendere il prefetto mentre passava sul carro. Accostatisi a lui, lo gli gridavano contro molti insulti. Egli allora, sospettando un’insidia da parte di Cirillo, proclamò di essere cristiano e di essere stato battezzato dal vescovo Attico. Ma i monaci non badavano a ciò che veniva detto e uno di loro, di nome Ammonio, colpì Oreste sulla testa con una pietra. Accorsero cittadini di Alessandria, dispersero i parabolani e catturarono Ammonio conducendolo da Oreste: questi, rispondendo alla sua provocazione pubblicamente con un processo secondo le leggi lo condannò a morte. Tempo dopo rese noti questi fatti ai governanti, ma Cirillo fece pervenire all’imperatore la versione opposta.
Non si sa quale fosse la versione dei fatti approntata da Cirillo, ma la si può immaginare dal fatto che il vescovo fece collocare il cadavere di Ammonio in una chiesa e, cambiatogli il nome in Thaumasios — «ammirevole
» — lo elevò al rango di martire, come se fosse morto per difendere la sua fede.
In questo clima, maturò l’omicidio di Ipazia, poiché, riferisce lo storico della Chiesa Socrate Scolastico, «s’incontrava alquanto di frequente con Oreste, l’invidia mise in giro una calunnia su di lei presso il popolo della chiesa, e cioè che fosse lei a non permettere che Oreste si riconciliasse con il vescovo».

Era il mese di marzo del 415, e correva la quaresima, un gruppo di cristiani, guidati da un lettore di nome Pietro, si misero d’accordo e si appostarono per sorprendere Ipazia mentre faceva ritorno a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brandelli del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli.
Il filosofo pagano Damascio si era recato ad Alessandria intorno al 485, quando ancora vivo e denso di affetto era il ricordo dell’antica maestra.
Divenuto poi scolarca della scuola di Atene, scrisse, cento anni dopo la morte di Ipazia, la sua biografia. In essa sostiene la diretta responsabilità di Cirillo nell’omicidio: accadde che il vescovo, vedendo la gran quantità di persone che frequentava la casa di Ipazia, «si rose a tal punto nell’anima che tramò la sua uccisione, in modo che avvenisse il più presto possibile, un’uccisione che fu tra tutte la più empia». Anche Damascio rievoca la brutalità dell’omicidio: «una massa enorme di uomini brutali, veramente malvagi [...] uccise la filosofa [...] e mentre ancora respirava appena, le cavarono gli occhi».

Dopo l’uccisione di Ipazia fu aperta un’inchiesta. A Costantinopoli regnava di fatto Elia Pulcheria, sorella del minorenne Teodosio II (408- 450), che era vicina alle posizioni del vescovo Cirillo d’Alessandria e come il vescovo fu dichiarata santa dalla Chiesa. Il caso fu archiviato, sostiene Damascio, a seguito dell’avvenuta corruzione di funzionari imperiali. Anche secondo Socrate Scolastico, la corte imperiale fu corresponsabile della morte di Ipazia, non essendo intervenuta, malgrado le sollecitazioni del prefetto Oreste, a porre fine ai disordini precedenti l’omicidio.

A partire dall’Illuminismo, Ipazia viene considerata una vittima del fanatismo religioso e una martire laica del pensiero scientifico. Nel Settecento lo storico britannico Edward Gibbon definì la sua morte una «macchia indelebile sul carattere e sulla religione di Cirillo d’Alessandria».

Ipazia fu celebrata in romanzi, poesie, opere teatrali e quadri.


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